20.7.07

IL CANTORE DEL NUOVO, STORTO MILLENNIO

Ieri sera chi non c'era s'è perso una show perfetto. Davvero intenso. Appena pubblicata su Extra! Music Magazine. La trovate qui. Perché Damien Rice è il cantore di questo nuovo, storto millennio che ci toccherà vivere. Non c'è dubbio.

*
L’attacco con “Volcano” prende la Cavea dell'Auditorium di petto. “What I am to you is not what you mean to me”. E la ipnotizza in pochi minuti. Tenendola a se fino alla fine. Non c’è scampo. Per oltre un’ora e mezza di perfezione assoluta. Un concerto fine, ecco. Levigato in ogni anfratto sonoro. Elegante ed intenso. E non c’è un pezzo – non uno – che dopo i primi secondi non meriti l’applauso. Perché la gente lo aspettava. Lo cercava. Perché sono uno più bello dell’altro.

L’irlandese di Celbridge Damien Rice, nella sua apparente essenzialità e crudezza – anche nel vestire -, sa in realtà stare sul palco come i grandi songwriter. La sua pronuncia è rotonda, di un inglese pulitissimo e pungente, che riesce a fare di ogni canzone un piccolo quadro incrinato. “I guess I'm no good, I guess I'm insane”. A metà strada fra le delicatezze bucoliche delle sue origini irlandesi, appunto, e il disincanto cinico delle metropoli americane e della California. Fra storie privatissime e incrinature di tutti.
Musicalmente, non commette un errore. Zero. Ad accompagnare Damien, che alterna chitarre acustiche e piano, la scabra viola di Vyvienne Long, batteria, chitarra e basso. A significare che quando serve – per esempio nella biblica “Me, My Yoke and I” – l’elettricità serve. Non troppa: a botte improvvise. Ma serve. Salvo poi lasciare nuovamente la scena ad un approccio decisamente acustico. Ma sempre e comunque intimamente ritmico.
Paradossalmente: la struttura è quella post-rock, altro che folk. Sarà che ancora qualche molecola sonora della sua prima indie-rock band, gli Juniper, ce l’ha in giro per la testa, quando compone.

Poi è tutta un’altalena di melodie, senza sosta: da “I remember” a “Dogs” fino alle incalzanti e drammatiche domande di “Accidental Babies” (“And do you brush your teeth before you kiss? Do you miss my smell? And is he bold enough to take you on?”). Passando per “Eskimo Friend” e per il terzetto finale con dentro la più bella canzone degli ultimi dieci anni: “The Blowers Daughter”. Già un classico. Ancitipata da “Cannonball” e seguita da “Coconut Skins”. Forse, l’unico appunto che si può fare all’irlandese è l’eccesso compositivo di crescendo: pare che, trovata la formula musicale più adeguata ai suoi testi, abbia esagerato a volte nel riproporla sistematicamente in buona parte delle sue canzoni. Ma è poca cosa rispetto al sudore che riesce a farti scendere giù per la schiena con la sua interpretazione, i suoi sussurri, le sue grida, le sue confidenze al pubblico (un pezzo l’ha fatto totalmente senza amplificazione). Chiudendo poi con una simpaticissima “Cheers Darlin’” prima recitata e poi interpretata nelle vesti del protagonista. A spiazzare tutti quelli che lo accusano di essere solo un musone.

Bisogna dirlo: forse insieme a David Gray è il cantautore più credibile, per questo periodo. Interpreta e ogni volta pare rimanere egli stesso scosso dai suoi testi. Canta magnificamente. Arrangia i suoi pezzi con grande furbizia e anche con lo scopo di dare alle canzoni strutture che non stufino e che sappiano intrattenere. Damien Rice è un po’ la voce che racconterà le emozioni del nuovo millennio. Un millennio malinconico, storto. Eppure ci toccherà viverlo.

[Nota a pié di papera]
Per me è stato molto complicato seguire il concerto. Davvero. Ero circondato. Letteralmente accerchiato da schermi di ogni dimensione e tipo. Telefonini, macchinette digitali, “blin”, “plin” e segnali acustici di ogni tipo. Ho sfiorato in più occasioni la bestemmia. Un incubo. Alla mia destra, tre scalmanate pseudo-parioline, accorse in Cavea solo per il Damien Rice fisicamente inteso. Alla sinistra: giornalista con la puzza sotto il naso con donna figa (una escort? Troppo carina per lui, troppo) al seguito – faceva le foto pure lei. Di fronte, amici pelati in vena di fotografia. E allora mi domando: ma perché, in un mondo di mediazioni, auto-costringersi a mediare anche un live musicale, incarcerando l'occhio dietro all'ennesimo monitor? Folle.

3 hanno detto la loro:

Anonimo ha detto...

Recensione perfetta, compresa la nota sui telefoni cellulari.

Anonimo ha detto...

Un concerto splendido...osservazioni centrate in pieno!
Baci e alla prossima,
*vero*

Anonimo ha detto...

Io di solito ai concerti faccio due o tre foto per ricordo. Poi accendo la macchinetta fotografica alla funzione video, la tengo in mano o al collo o la appoggio da qualche parte e registro il concerto. Tornata a casa lo trasformo in mp3 :P

Sono tornata da Paris *_*

E tra un po' riparto :D