30.10.07

CENTRO DI IGIENE MENTALE: LETTERE DALLA CREATIVITA'

Qualche giorno fa sono andato al Parioli a sentire/vedere lo stettacolo del capelluto qui affianco, Simone Cristicchi. E, come potete leggere qui sotto, non m'è dispiaciuto. Proprio per nulla. Il report è stato pubblicato quest'oggi su Rockit. Per il resto, rientrato da tre splendidi giorni on the road in Umbria, navigo fra testi di storia dell'arte pesanti come la Basilica di San Pietro ma affascinanti come il Mondo. Ieri, per la cronaca, ho compiuto nientepopodimenoche 24 anni.

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Schivare attentamente la retorica. Perché sul tema – pur straziante – s’è già detto tanto. Non che aggiungere particolari al dramma di quei gulag della modernità che erano i manicomi sia proibito. Anzi. Solo che uno spettacolo in forma di teatro-canzone, secondo il finto-disimpegnato spirito anni ‘70 marchiato Gaber e Luporini, richiede un netto surplus di sensibilità ed attenzione per conquistarsi dignità artistica. Altrimenti, come amano dire i filosofi, non è.

Simone Cristicchi ha pensato e messo in scena le sue idee con grande umiltà. Ha costruito uno spettacolo intenso, del tutto originale. E alla fine ha prodotto quel valore aggiunto che merita, con un lavoro messo in piedi a dispetto di ogni aspettativa.Anzitutto perché ha l’ingrediente essenziale per il teatro-canzone: la capacità del verseggiare leggero, che sfiora e sfrutta gli stratagemmi umoristici del contrasto e dell’ossimòro. Ma profondissimo. Sia nei pezzi che recupera dal disco d’esordio “Fabbricante di canzoni” (“Senza”, “Angelo custode”, “L’autistico” e altri). Sia nel guizzo geniale di far parlare le lettere dei ricoverati (meglio: confinati) del manicomio di San Girolamo, a Volterra. Ritrovate allegate alle loro cartelle cliniche. Parole vecchie, dei primi del ‘900. E parole più recenti, poco prima della legge Basaglia. Dentro: una realtà parallela che nessuno si è curato non tanto di considerare come alternativa, e non malata. Ma nemmeno di spedire ai legittimi – e spesso fantasiosi – destinatari.

Proprio su questo snodo, grazie al lavoro eccellente di due attori, in particolare di Tommaso Taddei, lo spettacolo innesca una giravolta tragicomica dentro la quale, a turno, i protagonisti sono matti e sono medici e sono narratori onniscienti e sono cavie e sono vittime. Tutto, però, rivolto a mettere a fuoco l’aspetto che sembra stare più a cuore all’occhialuto cantautore romano: la creatività dei matti.
E’ stata quella, spesso, a legar loro mani, polsi e ad infilarli in una vita di forza: una fantasia quasi sempre straripante – e però occhiuta e chirurgica - soffocata dal conformismo, dalla paura, dall’ignoranza, da famiglie troppo attente a quel che avrebbero pensato vicini ed amici. Lettere che sembrano litografie di Escher: contorte, paradossali, stimolanti e martoriate da una censura che ha evitato divenissero pubbliche.

In fondo è qui che Cristicchi vuole arrivare: la censura non è solo politica o ideologica. Ma anche medico-scientifica. E il manicomio, al pari del carcere e di altre strutture di micro-potere, fino al '78 ha partecipato appieno di quel sistema coercitivo di foucaultiana memoria. Che in un certo senso continua a censurare anche la nostra, di creatività.

10 hanno detto la loro:

Anonimo ha detto...

Ho trovato un tuo commento, datato di un mesetto, quasi due, a cui però non so ancora dare spiegazione.

"Eh??"

Potrebbe riferirsi al post?
E' la canzone dei Perturbazione, se si riferiva a quello. Altrimenti... nin zo.

Anonimo ha detto...

Consiglio, a tal proposito, la visione di "Lettere da un manicomio" in onda a partire da novembre su Cult (canale 143 di Sky). Sono mini documentari sempre sul genere, diretti da Alberto Puliafito, già regista del documentario "Dall'altra parte del cancello" sempre sui matti "di" Cristicchi.
[Ste]

Simone ha detto...

Grazie per la segnalazione, Ste.

Io non ho Sky. Spero di trovare qualcosa in Rete.

Anonimo ha detto...

Davvero un bel pezzo. Non sono un amante particolare di Cristicchi, ma posso dirmi convinto - ora :°) - ad andare a godermi il suo spettacolo.

E se posso permettermi anche io una divagazione sul tema, consiglio "Matti da Legare" di bellocchiana memoria. Direttamente dall'epopea di Basaglia alla realtà.

Simone ha detto...

Thanks!


E grazie anche a te per il suggerimento...

Anonimo ha detto...

Premetto: non ho visto lo spettacolo. Ho letto il libro, visto il documentario, però, e l'apologia del matto-artista, del matto-creativo, a me sembra peccare di quella retorica che dici. Il matto non diverso in senso peggiorativo, ma innalzato a icona e quindi, nuovamente, escluso.
Sarebbe interessante leggere/vedere/ascoltare il matto-persona, credo, per non fare il gioco del potere credendo di sfuggirgli.

Simone ha detto...

Ma io ti dico che quella retorica non c'è. Non esiste, nello spettacolo.

E poi, scusami: la tua analisi parte dal presupposto che l'approccio al matto debba essere per default peggiorativo.
E che se, quindi, è migliorativo, senz'altro è retorico.

Non ci sto.

;)

Anonimo ha detto...

Non so se non c'è (ripeto, non l'ho visto, mi devo fidare), anche se trovo che focalizzarsi sulla creatività della follia sia riduttivo nel senso che riduce - come dicevo - il matto a icona e, di conseguenza, lo priva di forza, di potere.
La mia analisi NON parte dal presupposto che l'approccio al matto DEBBA essere peggiorativo: parte dall'assunto che esiste uno stigma che colpisce chi è affetto da malattia mentale e, ovviamente, si tratta di un insieme di pregiudizi negativi (il matto è pericoloso, per esempio).
La mia ipotesi è questa: così come è dannoso lo stigma, è dannosa questa celebrazione della follia come creatività - dannosa per chi soffre, dico, perché pone il matto in una posizione che è sempre e comunque *altra*. Spero sia più chiaro, adesso :)

Thomas Ray ha detto...

ah vecchio! auguri

Simone ha detto...

@Thomas: grazie mille per gli auguri! Finalmente qualcuno dei frequentatori del blog mostra di aver letto la premessa all'articolo. :)
Tu come stai? Sentiamoci via mail.

@ Esther: si, è più chiaro.

Rimane il fatto che lo spettacolo non si fondi interamente su questo aspetto, che è solo una delle sfaccettature che Cristicchi analizza - non un universale, ma un particolare.

E cioè, non vi è questa banale - e trita - riduzione del pazzo=creativo e quindi il conseguente isolamento che tu affermi - e che io condivido ma, se permetti, meglio essere isolati perché giudicati creativi che pericolosi.

Vi è invece la messa in evidenza come spesso quelle lettere, oltre che incomprensibili (o anche se incomprensibili) fossero, semplicemente, belle.

E come questa abbia spaventato. Del tipo: "Ma dai: anche i matti provano sentimenti e li confezionano con questa intensità?".