Parto da Bahamut e da quel che sostieni: “L’autore è il male dell’opera”. Sei un decostruzionista fuori tempo massimo?
«Uno non si pone il problema di quello che è. Poi noi siamo in due, con me c’è Flavia Mastrella, coregista e autrice delle scene. Ciascuno smonta la realtà in autonomia. Ma non è un processo consapevole. Non siamo programmatici».
Ma perché l’autore è il male?
«Lo è quando porta in giro l’opera per proclamare se stesso. E’ il gerarca. Questa cultura di falsi progressisti è piena di gente che fa un film o uno spettacolo solo per dare senso al proprio povero sé ministeriale. A restare, invece, saranno le opere. Degli autori, non resterà nulla. L’uomo sparisce, invecchia, muore».
E il pubblico?
«Il pubblico può leggere lo spettacolo sempre in modo diverso. Può intervenire. Però Bahamut è diverso rispetto al passato. Io resto dalla mia parte, il pubblico dalla propria. In Pitecus e Fotofinish il rapporto era più stretto. Il fatto è che il teatro di narrazione ha distrutto la capacità di capire legando appunto la comprensione all’ingrediente-trama».
Spesso è stato usato l’aggettivo “cinico”. Credo invece che i vostri testi abbiano la forza dirompente delle epifanie. Portano all’osso, in chiave tanto onesta da sembrare surreale, quello che in realtà tutti sappiamo.
«Sicuramente chi mente è più vero di chi rappresenta la realtà. I nostri lavori sono molto distanti dal reale: ma alla fine, per paradosso, schiudono molte verità. Comunque del precariato non me ne frega niente: ti pare che con tutti i mali dell’anima ci dobbiamo preoccupare per 100 euro in più?».
Popoli le installazioni che Flavia Mastrella ti consegna. Come vivi il peso di una dimensione spaziale nata da un’idea non tua?
«E’ la prima volta che mi fanno questa domanda. Prima provavo a tavolino. Poi Flavia mi donava uno spazio dove tutto quanto pensato sfumava: l’emozione di scartare le sue opere mi diverte e mi preoccupa ogni volta»
Tu non sei avanguardista. Casomai, sei uno che si guarda intorno. Digerisce. E sputa.
«Io non credo nell’avanguardia. E penso ci sia troppa retroguardia: facile definire avanguardista chi non si vuole che venga compreso. Siamo solo al nostro posto. Perché dovrebbero dirci che le nostre cose saranno comprese fra trent’anni? Forse perché fra trent’anni gli stronzi di oggi saranno morti?».
Il tuo strazio sul palco è il bilanciamento di una vita quotidiana noiosa?
«No. Posso fare uno spettacolo con gli stessi movimenti e la stessa durata uccidendomi del tutto o parzialmente. Certo, credo in un teatro di sudore e di sfiancamento. Che non è quello attuale».
Mi ero ripromesso di dirti, appena ti avessi visto: “Tu sei la morte”. Reazioni?
«È impossibile. Se fossi la morte risparmierei almeno me stesso».
«Lo è quando porta in giro l’opera per proclamare se stesso. E’ il gerarca. Questa cultura di falsi progressisti è piena di gente che fa un film o uno spettacolo solo per dare senso al proprio povero sé ministeriale. A restare, invece, saranno le opere. Degli autori, non resterà nulla. L’uomo sparisce, invecchia, muore».
E il pubblico?
«Il pubblico può leggere lo spettacolo sempre in modo diverso. Può intervenire. Però Bahamut è diverso rispetto al passato. Io resto dalla mia parte, il pubblico dalla propria. In Pitecus e Fotofinish il rapporto era più stretto. Il fatto è che il teatro di narrazione ha distrutto la capacità di capire legando appunto la comprensione all’ingrediente-trama».
Spesso è stato usato l’aggettivo “cinico”. Credo invece che i vostri testi abbiano la forza dirompente delle epifanie. Portano all’osso, in chiave tanto onesta da sembrare surreale, quello che in realtà tutti sappiamo.
«Sicuramente chi mente è più vero di chi rappresenta la realtà. I nostri lavori sono molto distanti dal reale: ma alla fine, per paradosso, schiudono molte verità. Comunque del precariato non me ne frega niente: ti pare che con tutti i mali dell’anima ci dobbiamo preoccupare per 100 euro in più?».
Popoli le installazioni che Flavia Mastrella ti consegna. Come vivi il peso di una dimensione spaziale nata da un’idea non tua?
«E’ la prima volta che mi fanno questa domanda. Prima provavo a tavolino. Poi Flavia mi donava uno spazio dove tutto quanto pensato sfumava: l’emozione di scartare le sue opere mi diverte e mi preoccupa ogni volta»
Tu non sei avanguardista. Casomai, sei uno che si guarda intorno. Digerisce. E sputa.
«Io non credo nell’avanguardia. E penso ci sia troppa retroguardia: facile definire avanguardista chi non si vuole che venga compreso. Siamo solo al nostro posto. Perché dovrebbero dirci che le nostre cose saranno comprese fra trent’anni? Forse perché fra trent’anni gli stronzi di oggi saranno morti?».
Il tuo strazio sul palco è il bilanciamento di una vita quotidiana noiosa?
«No. Posso fare uno spettacolo con gli stessi movimenti e la stessa durata uccidendomi del tutto o parzialmente. Certo, credo in un teatro di sudore e di sfiancamento. Che non è quello attuale».
Mi ero ripromesso di dirti, appena ti avessi visto: “Tu sei la morte”. Reazioni?
«È impossibile. Se fossi la morte risparmierei almeno me stesso».
Pubblicato su Inside Art di febbraio. © 2007 Guido Talarico Editore.
4 hanno detto la loro:
Grande Rezza! E grazie a te di aver postato una sua intervista che ancoranon avevamo letto.
finale intervista col botto!
peccato che il numero di gennaio di Inside non mi sia mai arrivato...speriamo che quello di febbraio arrivi presto!
Silvia, grazie mille. ;)
Gennaio non è uscito, proprio per rinnovarlo e ampliarlo.
Il numero di febbraio dovrebbe arrivarti in questi giorni.
Mi sta scrivendo gente da mezza Italia che l'ha trovato in edicola.
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