10.4.08

JAZZCORE, SELVAGGE IMPROVVISAZIONI

Segni particolari: non oltre i quattro elementi sul palco. Meglio se tre, quando non addirittura due. Essenziali batteria e basso, come nel caso degli indemoniati Sabot, statunitensi naturalizzati cechi, duo seminale in giro dal lontanissimo 1988. Da aggiungere, eventualmente, un sax, straziato fino a strillare. Sonorità dominanti: un miscuglio schizofrenico di jazz, noise, funk, rock, progressive. Con pesanti influenze hardcore e – questo senz’altro retaggio del jazz del tempo che fu – tendenza all’improvvisazione selvaggia e all’iterazione allucinogena di trame e motivi strutturali. Oltre che idiosincrasia verso la forma canzone canonicamente intesa. Insomma: vietato attendersi ritornelli. Nome in codice: jazzcore.

Un genere, una scuola, una sdrucita massoneria musicale. Le cui radici internazionali affondano quantomeno alla prima metà degli anni ‘80 e al suono statunitense dei Minutemen, dei Black Flag, dei Saccharine Trust. Ma che nell’Italietta di Sanremo, dei nani e delle ballerine è letteralmente esploso solo negli ultimi dieci anni. A partire dal lavoro dei romani Zu, in tour proprio in questi mesi con Mike Patton, monumento dei Faith No More. Ceppo iniziale dalle mille (recentissime) filiazioni, vedi alla voce folk Ardecore. Padri di una nuova scena che è ora, adesso, in questi mesi al suo massimo splendore. Una proliferazione incontrollata di band, insomma. Ma anche di appuntamenti, etichette – per esempio la nostrana Jazzcore Inc., completamente dedita alla causa – ed eventi che hanno riscosso sempre più successo. Ovviamente, nella scena underground: quella nascosta, sotterranea, puzzolente. Che nessuno segue ma tutti, alla fine, sanno esattamente che succede. Guadagnandosi credibilità e popolarità anche e soprattutto all’estero.

Dalle radici fortemente metal degli Eskimo Trio alle venature più funk degli Squartet, che hanno da poco aperto una serata proprio ai Sabot. Passando per il gruppo più affine al jazz-rock, i Nohaybandatrio. Fino all’approccio sperimentale – siamo dalle parti dell’ostico ma stimolante free-noise – di gente dagli inquietanti nomi quali Testadeporcu e Thrangh. C’è una scena che va attentamente estratta dall’ombra. Anche in Italia. Siamo in ritardo di vent’anni suonati, senza dubbio. Ma ci siamo.

Pubblicato sul numero di aprile di Inside Art. Copyright Guido Talarico Editore.

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