25.1.06

Pharmakon per anima ed occhio


La locandina di Hollywood party Posted by Picasa

Hollywood party è una di quelle pellicole che fanno il cinema.
Nel senso che, nel seguirle, nel decostruire e ricostruire, nel goderne sia da spettatore che da critico, trovi il midollo osseo di un certo genere, di un certo stile.
Oltre a scovare un motivo per esaltarti - e per commuoverti di fronte al rimpianto per non esserci stato quando il film era in uscita, ma questo è un altro discorso e per fortuna che, almeno in parte, il cinema è diacronico.
C'è, ci sarà sempre.

Ma poi, alla fine, al di là di tutto quel che fiumi di inchiostro e di battute sulle tastiere hanno detto e scritto di Hollywood party, che cosa rappresenta Hrundi V. Bakshi, lo strepitoso e mefistofelico Peter Sellers - davvero: a tratti la sua mimica e plasticità diventano inquietanti -?
Chi è, cosa ci fa lì in mezzo, in quel Party che vuole trasformare in una Festa - come dice argutamente Roberto Vaccino qui?
Lui, e quelli che come lui - quasi in una moltiplicazione e frammentazione di Hrundi -, quali il barcollante cameriere Levinson o la cantante Michelle, cosa vogliono?
Perché vengono innestati dove possono solo far dar vita ad un eclettico e a suo modo patinato caos?

Fanno la rivoluzione, lì in mezzo? Fra la casa straripante di schiuma delle sequenze finali e il loro essere Stranieri a tutto tondo in un complesso intessuto di rapporti-altri?
Fanno il '68, fra il surreale elefantino imbrattato dai figli della Hollywood bene (anche loro, la fanno, la rivoluzione? Anche l'amico della figlia dei proprietari in calzoncini corti?) e il continuo tentativo di comunicare?

Davvero, Hollywood party di schiaccia il cuore sotto il tacco. Lo spolpa.
Perché è tenero, è un film che parla dell'anarchia della comunicazione, di come i muri non servano a nulla e in realtà la rivoluzione - quella più importante, quella che cambia qualcosa, anche qualcosa di minuscolo ed impercettibile - si fa ovunque e possono farla tutti. Ne hanno bisogno tutti.
Anche quelli col sigaro che penzola dalle labbra.

Oltre ad essere - tecnicamente - una scatola magica in cui ogni variopinta marionetta (la fotografia è da eiaculazione sudoripara per quanto è terapeutica all'occhio) viene tirata a ritmi inappuntabili e calcolatissimi secondo lo schema tipico del music hall e dell'avanspettacolo piuttosto che del cinema in senso stretto. Dove le cose importanti - quasi facendo capolino e stuzzicandoti un po' malignamente - ti chiamano dal fondo dell'inquadratura e ti chiedono di seguirle, di coglierne lo spessore, il rimando, la valenza al di là pure dell'azione stessa. Sgattaiolando su e giù per le scale, a destra o a sinistra di un piano-palcoscenico ogni volta diverso,giocando a farsi individuare fra mille colori e vani e buchi e spazi. Solo grazie alla pragmatica, al linguaggio che viene da fuori, senza che il suo lato verbale debba troppo scendere in campo: casomai grazie la musica, allucinata bellissima e continua. Un jazz (il jazz pure, la sua rivoluzione, la fa sprofondando nella schiuma della più totale immobilità rispetto agli eventi che girano intorno?) che massaggia l'anima e ti chiede di star dietro a Peter Sellers alle sue primordiali ma chirurgiche e sottilissime gag montate in una struttura-flusso ubriacante.

Quell'indiano che - un po' cartoon, un po' diavoletto, un po' trickster - ti sussurra, col suo sorriso spavaldo, ingenuo e maledettamente commovente, che per lavar via quanto ci biasima bisogna solo aver il coraggio.

Allucinato e distorto - oltre che comico all'ennesima potenza, quel coraggio.
Come quello che, pure se non sembra, ha in serbo Hrundi nel prologo, quando fa saltare in aria il forte dando il via al film vero e proprio.
Che di quello metarappresentato altro non è che l'antifrasi pura e dura.

Come custodita in una gigantesca bolla di sapone l'antifrasi valoriale ed assiologica di Hollywood party monta, si gonfia ed esplode.

Quanto resta, è pharmakon per l'anima e l'occhio.

Io amo vivere anche perché c'è Hollywood party. E tutto quanto frusta o carezza il mio cervello. Lasciandoci dentro qualcosa.

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