12.6.07

Grindhouse - A prova di Quentin

Pubblicata oggi su Extra! Music Magazine. La trovate qui e di lato. Intanto, però, ve la copio di seguito.

E’ un gran casino “Grindhouse – A prova di morte”. E come si sa, quando si entra in un casino, possono venirne fuori esperienze estatiche ed altre pessime.

Esattamente quel che accade con l’ultima, travagliata pellicola del rivoluzionario più storicista che il cinema abbia mai avuto. Che a Cannes ed ora nelle sale ha presentato senz’altro la sua opera meno brillante, visto che le osservazioni grigie battono di netto quelle positive.

Tante parole, dialoghi interminabili e sfuggenti per l’ascoltatore-medio (si fanno approfonditi riferimenti a serial tv, film, costumi che manco un mandriano del Texas saprebbe stargli dietro). Inseguimenti mozzafiato – divertentissimi per quanto immotivati dalla sceneggiatura. Copia – copia, si – di caterve di sequenze di film anni 70, dagli Z movies di Russ Meyer con protagoniste tettoniche eroine alla riscossa, fino ai film sui motori. Passando per l’amore dichiarato ai nostri sottogeneri gore e splatter – Lenzi docet. Fino alla spasmodica attenzione per tutto quello che è – guarda un po’ – pop-pulp.
Insomma: il solito trash – a tratti valido, a tratti demenziale come tutte le cose della vita – che Quentin da sempre guarda, pesca e rimonta. Un po’ – però - con la convinzione di essere l’unico a conoscerlo. E l’unico a poterlo recuperare con dignità. Ogni tanto anche l’antiquario prende un abbaglio.

Death Proof”, come tutti sanno nato accoppiato a “Planet Terror” dell’amico Rodriguez poi diviso e rimontato in tutta fretta per il mercato europeo, è spaccato in due parti.
Nella prima, un eccellente Kurt Russell organizza a puntino un terrificante frontale con quattro giovani e prorompenti divette di Austin che hanno trascorso la serata a fumare, bere, strusciarsi e parlare (troppo!) per locali. La sua auto “a prova di morte”, eredità insieme alle cicatrici del suo mestiere di stuntman, gli permette di scamparla e ridurre le poverette alla consistenza di un plasmon.
Fine del primo episodio, puntellato da ballatone sexy e funky scatenati tra Joe Tex, the Coasters e Smith (senza s).
Nella seconda parte, i ruoli si invertono. E tre alter-ego delle precedenti sventurate finiranno – dopo il solito pappone di dialoghi al tavolino del bar tipo la sequenza d’attacco de "Le iene" – a rincorrere stuntman Mike riducendolo quasi in poltiglia. In una chiusura marziale fra calci rotanti e cazzotti karatekici che – se un minimo di causalità resiste – dovrebbero vendicare le malefatte della prima parte. Tributo all’exploitation in tutte le sue salse (shock, sex, dyx e così via). Punto.

Il giudizio è, molto francamente: rimandato al prossimo lavoro. C’è il solito stile che molti trovano inimitabile ed altri pesantemente farraginoso. Io sono fra i primi, ma stavolta Tarantino esagera. Perché “Death Proof” più che un film sembra un saggio di regia. Un geniale compitino di ripescaggio del passato, senza la rielaborazione che segnava cose come "Pulp Fiction" o "Kill Bill".
Certo, la fotografia è maledettamente catchy – pare un film anni '70 mal conservato, ha detto qualcuno, ed è verissimo ma magari a quel punto uno si rivede “Beyond the Valley of The Dolls". Gli inseguimenti sono talmente scassati e folli che surclassano di gran lunga le patinate corse di "Fast and Furious": gli angoli della camera a tratti provocano enorme goduria, come in altre parti del film.
Però si percepisce che è una roba rimontata in fretta. Prodotta con un’autocelebrazione montante. Che non sta, insomma, in nessun progetto. Quasi, direi, un divertissement – pagato caro – di Tarantino.

Forse i produttori hanno sbagliato: hanno presentato negli Usa la versione doppia, dove quella abitudine ai “doppi spettacoli” e ai cosiddetti “cinema di cortile” è ancora viva. Poi, come al solito, in base alle scuregge degli statunitensi - che, se permettete, non sono le nostre - hanno pensato di dividerlo e proporci un mezzo film impiastricciato, confidando esclusivamente sul traino del nome. Per noi europei. Che una prassi del genere non l’abbiamo vissuta in proporzioni nemmeno lontanamente paragonabili a quelle degli anni ’70 americani. E che quindi – magari – da un doppio film saremmo stati attratti con più curiosità. E ne saremmo usciti un po’ più soddisfatti che non di fronte ad un esercizio di stile di un pur grandissimo personaggio del cinema.

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