25.6.07

"XXY", QUELL'ETEROCROMOSOMA DI TROPPO

Pubblicata questa mattina su Extra! Music Magazine, sezione cinema. Perché è un film anti-retorico. E soprattutto tocca temi difficili con uno stile difficile. Eppure, alla fine, non servono troppe parole.

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Vero. Approcci e situazioni sono piuttosto differenti. Però non ho potuto fare a meno di respirare nuovamente certe sensazioni, mentre seguivo l’intenso esordio registico dell’argentina Lucía Puenzo, “XXY”, uscito da Cannes col premio della Semaine de la Critique in tasca. Le stesse, tostissime emozioni di profondo straniamento identitario provate divorando le pagine di uno dei più bei romanzi dell’ultimo lustro: “Middlesex”, di Jeoffrey Eugenides. Certo. In “XXY” c’è più dramma. C’è uno stile secco ed essenziale, centrato sui grandi silenzi ed i chirurgici sguardi della conturbante Inés Efron che scandiscono ed addomesticano i ritmi della narrazione. Ma al centro c’è comunque l’immensa – ed ancora tabù - figura dell’ermafrodita, attualissima crasi biologica delle contraddizione del nostro tempo.

Alex è una quindicenne argentina. Lo scopriremo con calma anche se tutto è chiaro sin dall’inizio: ha un eterocromosoma in più. Prende corticosteroidi, si direbbe che la sua strada sia quella di “tentare” di divenire una donna. La famiglia ha deciso molti anni prima di trasferirsi in una grigia e selvaggia isola uruguagia per sottrarla agli “interventismi” dei medici e alla morbosa curiosità della gente di Buenos Aires. Alex è spigolosa, acuta, violenta. E’ affascinante come solo l’ambiguità che rompe i frame precostituiti sa essere. Ma sta entrando in una fase discriminante per chi è nata come lei. E la sua duplicità sessuale – o meglio, ed è questo un punto forte del film: la reazione sociale che essa provoca – la sta divorando. La madre Suli, all’insaputa del papà biologo Kraken, invita per un breve soggiorno un vecchio amico di famiglia, Ramiro, noto chirurgo plastico argentino con moglie e figlio sedicenne al seguito, Alvaro. L’intenzione è quella di far analizzare al chirurgo la situazione, convincere il padre ad un’operazione che renda Alex una bambina almeno nel corpo, familiarizzare con lei.

La visita, in realtà abbastanza prevedibilmente, sconvolgerà il già precario equilibrio della errabonda ma profondissima vita della giovane ermafrodita, cucendo ai già complicati passaggi della pubertà – gli amori, le irresistibili attrazioni e curiosità sessuali che pure Alex imbastisce, ad esempio con l’amico Wando e poi anche con Alvaro – una inevitabile presa di coscienza: scegliere è quasi impossibile. “Era perfetta”, dice Kraken alludendo alla figlia neonata ed alla scelta di non intervenire sin dai primi anni di età, lasciando una eventuale decisione a lei, quando sarebbe stato il momento. Ed è perfetta anche adesso, Alex. Solo che – qui la Puenzo è eccellente – al problema personale di non potersi dire certa di nulla, nemmeno delle sue contradditorie pulsioni erotiche e di un corpo dalla morfologia impazzita, unisce l’ansia di dover rispondere alla società, alle domande degli altri. E non sono tanto gli stolti e curiosi marinai uruguaiani, a personificare l’esterno. Quanto l’assonnato e urbano Alvaro, che narrativamente gioca proprio questo ruolo: estrarre a forza Alex dal suo selvatico isolamento. Incarnare l’ottica sociale ed i comuni canoni di normalità. Farle domande difficili. Insolubili. Salvo poi cadere egli stesso – guarda caso, come accade sempre anche alle dinamiche sociali nel loro complesso - nelle contraddizioni più piene e per giunta nascoste ed inaccettabili.

Lucía Puenzo tratta il tema con grande delicatezza: gioca su sguardi e silenzi, su una sceneggiatura rapida ed icastica che non ha bisogno di lunghe divagazioni e spiegazioni. Disegna personaggi e caratteri completi e credibili pur nel loro semi-mutismo (si pensi al chirurgo e allo stesso Alvaro: alla fine chi parla di più è proprio Alex). E che proprio per questo riescono a dare equilibrio ad un film che – per soggetto – avrebbe potuto rischiare la celebrazione dell’ermafrodita. Staglia inoltre le vicende - le forsennate corse di Alex, le case di legno, le auto, le strade, le barche - in un paesaggio assolutamente anti-retorico, fuori da ogni location familiare almeno per noi europei, eppure così fascinoso come le spiagge uruguaiane. Dove si va coi maglioni dai quali ci si libera solo quando il sole scalda un po’ di più.

Riesce infine a fondere con abilità le comuni vicende di una qualsiasi rivoluzione adolescenziale (ogni adolescenza coincide con la guerra, canta qualcuno) alla travolgente situazione della conturbante Alex.

Le cui conseguenze più profonde – paradossalmente, in quel limbo sessuale che è la sindrome di Klinefelter - si disegnano in negativo: vale a dire non avere alcuna certezza per poter scegliere cosa essere. O cosa non essere.

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