
Denys Arcand è un po’ il nostro cantore, diciamolo. Quello che scarica in video – tentando di scovare stratagemmi narrativi stranianti, in questo caso la realtà parallela dei giochi di ruolo in costume – tutto ciò che detestiamo. Tutto quello su cui non possiamo fare a meno di incazzarci. Le intere nostre frustrazioni. Perché il personaggio di Jean-Marc – nel molle e azzeccatissimo volto del comico Marc Labrèche – è senz’altro un mediocre funzionario statale dalla vita banale e priva di senso. Con villino, figlie sordomute barricate dietro ipod e telefonini e una moglie arrivista e iperattiva. La donna perfetta.
Tuttavia, dentro le sue paure e i suoi sfinimenti, ci siamo tutti. Proprio tutti. E lo pensavo stasera, mentre rientravo – pendolare – nel mio paesone, incastonato nel traffico romano. Scambiandomi sguardi rognosi con quello della Clio affianco.
Dopo il registro straziante, secco e delicatissimo de Le invasioni barbariche, il regista del Quebec chiude (?) la sua trilogia dedicata alla vivisezione del nostro putrefatto tempo con una sonora sterzata verso il grottesco e il surreale. Cambia toni, registri, colori. Scegliendo addirittura di ficcare nel film inserti fantastici – l’apertura e la chiusura e soprattutto le elucubrazioni femminili di Jean-Marc, che trova rifugio nei suoi pensieri erotici alimentati da quanto i mass media gli danno in pasto. Edificando, in parallelo alla sfiancante e sciatta esistenza del protagonista fatta di surgelati, burocrazia mangiasperanza e post-fordismo esistenziale, una variante medievale stile armata brancaleone. Attenzione, dice Arcand: stiamo tornando indietro. Poco male, aggiunge mesto e a mezza bocca: se questi sono i risultati.
Se Le invasioni barbariche, nel pur drammatico tema affrontato, rivelava un approccio squarciato dal solare, vitale (e malato) Rèmy, L’età barbarica sembra non ammettere scampo al grigiore. E il titolo originale (L'Âge des ténèbres) la dice lunga sull’asfissia che distrugge, con Jean-Marc, tutti noi. Ogni giorno. Ogni fila. Ogni sportello della burocrazia. Ogni sogno infranto. Ogni saluto negato. Ogni carezza perduta per stare davanti a un pezzo di plastica con uno schermo.Finisce che l’Arte salva. Salva la vita. Perché dà da mangiare allo spirito, la parte di noi che abbiamo dimenticato a casa. Prima di lanciarci nell’ennesima maratona socio-costrittiva.PS Poi - certo - dimenticavo: riderete di brutto. Ma di quelle risate che solo noi sappiamo farci: risate di dramma.
(20/12/2007) - © 2002 - 2007 Extra! Music Magazine. Tutti i diritti riservati.
3 hanno detto la loro:
"risate di dramma": azzeccatissimo.
quasi quasi torno a rivederlo.
STU PEN DO
Grazie, Sara.
Auguri!
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