2.3.08

LA PRIMAVERA HITLERIANA

Poco fa con Matteo passeggiavamo in campagna. Qui, vicino Monterotondo. La località si chiama Fratini: c’è qualche fattoria, alcuni silos in disuso e un agriturismo-maneggio. C’andavamo da ragazzetti a fare pasquetta. C’infrattavamo con le malcapitate di turno, tiravamo interminabili e sfiatati calci agli indimenticabili supertele, c’ingozzavamo delle torte di verdure di mia madre, dei panini degli altri, dei dolcetti delle nonne che, rimaste in città, ingannavano il pomeriggio andando a messa. Ogni tanto rischiavamo anche qualche fucilata dai contadini.

Erano circa 500 anni che non passavamo da quelle parti. Abbiamo riscoperto colline paleo-toscane e paesaggi che fanno respirare le nostre retine che puzzano di computer. A 5 minuti da casa. 5 minuti del cazzo.

Ragionavamo su quanto fosse capziosa e strumentale la canzone presentata dai Tiromancino a Sanremo, “Il rubacuori”.
In sintesi: se il tema è apprezzabile ed è comunque bene che si affronti il problema drammatico degli ormai sfasciati equilibri del mercato del lavoro, è anche vero – ribattevo – che i veri artisti, i poeti, i letterati, i musicisti, i pittori arrivano sempre prima. Troppo facile – insistevo – ficcarsi nel coro delle prese di posizione scontate e dalla facile rendita fuori tempo massimo: i veri artisti, con le loro antenne, captano nell’aria un cambiamento in arrivo, una situazione di mutamento. E la immortalano prima che li si possa accusare di aver voluto cavalcare il momento favorevole a certe tematiche.

Allora m’è tornato in mente il povero Eugenio Montale, e questa sua poesia composta nel 1938, a un anno dallo scoppio della seconda guerra mondiale.


Dentro, c’è già il seme della tragedia che travolgerà il mondo.
Si chiama “La primavera hitleriana”. Ed è arrivata prima.

Solo che nessuno dà mai retta ai poeti.

Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l'estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l'ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch'esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s'è tramutata in un sozzo trescone d'ali schiantate,
di larve sulle golene, e l'acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.

Tutto per nulla, dunque? - e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l'orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell'orda (ma una gemma rigò l'aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell'avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani - tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio....
Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell'Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince -
col respiro di un'alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz'ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud...


(Eugenio Montale, La bufera)

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