11.5.08

"OUTRÉ": POSTMODERNO TEATRINO DEGLI ORRORI

Sei (anonimi) personaggi in cerca d’autore, quelli che popolano “Outré”. Pezzi di una frastornata anima individuale frastagliati in sei versioni altrettanto disorientate. Inquietanti e fuligginose marionette di un tempo, quello scandito dall’ipnoelettronica di gente come Tyondai Braxton (Battles), Jamie Lidell e Christian Vogel, che scippa l’identità scaraventando nell’horror vacui. Molti i rivoli interpretativi, altrettanti gli stimoli martellati dall’opera multimediale del visionario Darren Johnston, presentata per la prima volta in Italia venerdì e sabato scorsi all’Auditorium di Roma in un evento nato dal sodalizio fra Meet in Town e Dissonanze. Ma già apprezzato al Fringe Festival di Edimburgo nel 2006 e al Todaysart Festival de L’Aja l'anno scorso.

Lo snodo è capire da quale intento nasca un lavoro del genere, che mette assieme le sperimentazioni del corpo libero della danza contemporanea, la fusione con essa delle videoproiezioni (basti pensare a "Why?", l'ultimo spettacolo di Daniel Ezralow, per quanto di natura totalmente differente) e le allucinogene suite composte dai nomi più chiacchierati della storica Warp Record. Questo perché l’impasto funziona. Eccome se funziona. Un lavoro compatto (un’ora spaccata di durata: finisce esattamente nel momento in cui deve concludersi), suddiviso in cinque capitoli principali, ognuno ben differenziato dall’altro. Il mood che ne esce, dunque, è l’aspetto più entusiasmante: un’opera collettiva che punta a trasportare anche il pubblico, seduto a terra, in una sorta di teatrino di orrori fiche marionette per adulti. L’atmosfera, l’impianto complessivo e il sapore che si respirano sono acidi, metallici, pesanti e segnano. Nonostante la freddezza di un pubblico sostanzialmente analfabeta, spiazzato da una danza contemporanea (quella vera, sperimentale, che riscuote successi in Europa) sempre più distante dai nostrani teatrini televisivi. E quindi incomprensibile ai più.

Per paradosso, è proprio la parte musicale quella da cui ci si poteva attendere un po’ più di coraggio. Le composizioni dei vari e figheiri Jamie Lidell, Mira Calix, Christian Vogel, Venetian Snares, Max De Wardner, Philip Neil Martin, Tyondai Braxton, Johnny Pilcher e Tomo partecipano senz’altro dell’atmosfera complessiva di questo teatro degli orrori, per dirla con una citazione indie rock. Ma non lasciano un segno, latitano nelle ritmiche. Forse nel tentativo di non invadere il campo di sette magnifici living (dying?) performer che non ci mostrano quasi mai la faccia e tengono il palco con un’abilità disarmante, considerando la loro cecità momentanea. Un gioco alla Goffman: alla ricerca dell’identità perduta. Scavando nelle proprie personalità?

(11/05/2008) - © 2002 - 2008
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