21.11.08

IL MIO FRANKENSTEIN NASCOSTO - INTERVISTA A GORAN BREGOVIC

Il nuovo disco, Alcohol – ultimo di una sterminata serie – è uscito da pochissimo. Vi propongo l'esito della mia chiacchierata con Goran Bregovic uscito sul numero di ottobre di Inside Art.


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Più o meno come le sbilenche composizioni che pensa e suona, in grado di alternare momenti di sterminata melanconia a scalmanate e furiose esplosioni d’ottoni, l’alfiere dello gitanismo sonoro mondiale Goran Bregovic risponde a stantuffo, come un treno che gorgogli su per qualche sdrucito dirupo bosniaco. Quasi suda, mentre impugna quell’italiano bastardo che, se possibile, aumenta quell’affascinante piglio da pestifero cantore del meticciato contemporaneo.

Dal rock dei Bijelo Dugme a Karmen, passando per scuole di musica, istituti tecnici, Tito, Napoli e Kusturica: come ti senti?

«La mutazione è intrinseca all’uomo, non siamo mica alberi. Certo, se mi elenchi tutte queste cose in cinque secondi, un po’ di paura la provo. Tuttavia mi pare normale, si cambiano orizzonti. O vogliamo rimanere coi pampers addosso tutta la vita?»

Forse le canzoni dei Bijelo Dugme erano la tua arma di contestazione e dunque davvero, per te, la musica è stata rivoluzione?

«Eravamo giovani e col comunismo ognuno cercava un modo di esprimere, senza razionalizzare granché, la sua diversità. Il regime spingeva all’omogeneizzazione. E il rock‘n’roll era veramente importante in tutti i paesi comunisti, più che in Occidente, dove avevate tanti altri modi di contestare».

Certe sonorità balcaniche sono ormai risucchiate dal vortice della musica commerciale, penso ai Gogol Bordello: che idea ti sei fatto su quest’uso delle tradizioni locali?

«È bello vedere che, forse per la prima volta nella storia, alcune piccole culture riescono a influenzare così tanto quelle più grandi. Amo che i dj rubino il materiale balcanico, che poi torna ancora a noi e influenza i nostri giovani. Aumenta anche la convinzione nelle proprie, piccole condizioni culturali».

Bartok e jazz, tanghi e ritmi slavi, suggestioni turche e vocalità bulgara. E ancora: elettronica, Iggy Pop e kelzmer. Tu come la chiami? Forse l’etichetta world music è un po’ invecchiata…

«La mia è senz’altro una musica Frankenstein. Non che spinga troppo per questo, ma è così. Sono un compositore di un posto in cui è tutto mescolato, di puro non c’è nulla. Parlo questo linguaggio, nato fra moschee, cattedrali ortodosse, sinagoghe, feste, matrimoni e funerali. Non metto etichette, sono un insider».

«Ora non mi interessa la carriera, ma solo la musica. Mi diverto a provare di tutto, dalle canzoni per bambini alle sinfonie più complesse». Dobbiamo aspettarci un’altra sterzata?

«Venivo già da una grande carriera rock, ero una star. Ma la vita ci offre altro, è un peccato sprecarla per una missione soltanto. È per questo che scrivo naturalmente, come mangio. Un giorno al ristorante, un giorno in cucina con quello che avanza. Appartengo a una contemporaneità diversa, parallela alla vostra. Non posso fare finta di essere americano».

Composizioni come le tue, accompagnate dalla Wedding & funeral band, la fida fanfara di ottoni che ti segue da anni, possono contribuire a diffondere il meglio della cultura gitana rompendo gli schemi che vanno irrigidendosi?

«Nei prossimi anni l’Europa dovrà riconoscere il dono della cultura gitana anche nella sua cultura. Anche se ora sembra difficile, questi residui dovranno

essere riconosciuti. Il fascino della musica gitana è proprio che manca un’etichetta per definirla: è un modo per sopravvivere, rubando ritmi arabi, armonie spagnole e melodie klezmer. Nasce da un bisogno, non da una moda».

Una vita stracolma di viaggi, persone e musiche differenti: qual è il fondamento della tua esistenza, la certezza attorno cui ruota tutto il resto?

«Per ora sono nel periodo in cui amo immaginarmi come un compositore che può fare delle cose che difficilmente gli altri possono fare, spaziando dagli anfiteatri antichi così come al tuo matrimonio, se vuoi. Ho suonato in posti che non puoi nemmeno immaginare che esistano, per i curdi, nella loro città di Diyarbakır, a Beirut, in Islanda, in Siberia. Posso farlo grazie al privilegio di essere uno specialista dell’unico linguaggio universale: la musica. Impensabile per la religione o per la politica. Come potrei non farlo?».

Dopo tutti questi anni, rimani un alfiere della musica come strumento di pace.

«Sono in buona compagnia. Da Adorno a Schopenauer, tanta gente ha sempre pensato che sia la formula magica per compiere scelte altrimenti blasfeme».

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